Fare il bagno fuori casa

Il fabbricato è ormai scomparso. Così come del resto la funzione per il quale era stato realizzato: il bagno pubblico. Al confine fra luogo dell’igiene personale, ludico intermezzo e strumento di profilassi sanitaria, il bagno pubblico è considerato solo in seguito segno di disagio e precarietà. Ma sino alla metà del Novecento poter immergersi e lavarsi in acqua calda fra le mura di casa era traguardo di una minoranza dei cittadini, destinati a frequentare tinozze, docce gelide improvvisate o le rogge che ancora intessevano la città.

Nell’anno 1882 il medico Tullio Bonizzardi segnalava per Brescia la mancanza dei bagni pubblici. E già nel 1895 ad accorgersi delle nuove esigenze che si condensano nella prioritaria necessità di poter disporre di acqua all’interno della propria casa e del proprio bagno è l’avv. Fausto Massimini che, discettando circa la miglior forma del nuovo regolamento per l’utilizzo da parte degli utenti dell’acquedotto civico, precisa con esattezza le attese dei bresciani, di una città in cui “la tendenza ad avere l’acqua nella propria casa si fa sempre maggiore /poiché/ è questa una delle comodità più ricercate e più consigliabili così dal punto di vista dell’igiene come dal punto di vista dell’economia domestica”.

La sua descrizione è chiara, anche se magari prendendo a prestito un paragone forse altisonante – la città di Parigi – ove, scriveva, “il consumo in venti anni si è triplicato: la media teorica d’acqua da assegnarsi a ciascun abitante si calcola ovunque in cifra sempre più alta, in tutti i quartieri di nuova costruzione, nelle città meglio ordinate e largamente dotate d’acqua, si ha l’acqua non solo in ogni casa, ma in ogni piano, in ogni appartamento, nei bagni”. Per Brescia alla fine del XIX si pensava dunque che, se non in tali proporzioni come lungo la Senna, certamente “è prevedibile che questa tendenza continuerà a diffondersi anche nella città nostra, dove sono già adesso frequentissime le domande di nuove concessioni”.

Certo per il momento il problema è di far giungere l’acqua nelle stanze: per il suo riscaldamento ci si poteva ancora affidare a stufe a legna. E’ l’inedito verbo, igiene, che occupa un posto del tutto nuovo rispetto al passato: la salute si mantiene attraverso una serie di accorgimenti legati al sapiente utilizzo dell’acqua, calda o fredda, da usare col sapone o la lisciva, in piscine, in vasca o in tinozza.

Così il 19 giugno 1882 si inaugura a Porta Trento il primo Stabilimento di Bagni Pubblici municipale: due grandi piscine, “una gratuita per i poveri”, come si scrisse qualche anno più tardi, “e l’altra per i paganti, con 70 camerini per spogliatoi e per docce.
Dopo qualche tempo altri due Bagni saranno aperti a cura degli Spedali Civili in via Moretto, e per iniziativa di privati nell’attuale via Gramsci.

Nell’immagine si evidenzia il lungo fabbricato dei bagni di via Moretto. E proprio mentre l’acqua diventa una merce che il Comune smercia all’utente, si moltiplicano gli appelli e la propaganda per il suo plurimo uso quotidiano. La “Guida di Brescia” redatta nel 1903 da Arnaldo Gnaga, accanto a musei e monumenti, all’esatta descrizione del nuovo acquedotto e della sua rete distributiva, segnala pure “l’elegante stabilimento” presso la Chiesa di San Lorenzo, ove un “bagno semplice” costava solamente 1 lira, ma erano disponibili pure “bagno marino e solforato, a vapore, doccia”.

Di un incitamento all’uso dell’acqua si fa carico pure la Veneranda Congrega di Carità Apostolica. Come ricordava il volume espressamente dedicato nel 1911 alla propria attività di beneficenza nel campo dell’igiene, essa da tempo interveniva -grazie alla distribuzione di buoni- per facilitare l’accesso nei mesi di giugno e luglio ai “bagni medicati da farsi presso l’Ospedale Maggiore”, ma soprattutto per le “docce da prendere all’apposito Stabilimento Comunale dei bagni”. Non si trattava – nella richiesta di utilizzare con maggiore frequenza l’acqua – di interventi prettamente sanitari: in questo modo infatti “numerosi poveri possono godere dei vantaggi di queste cure, le quali, se non sono sempre molto efficaci dal lato terapeutico, lo sono però indubbiamente dal lato della … pulizia, che lascia troppo spesso a desiderare nella classe dei poveri”.

Il bagno pubblico, magari con qualche sale terapeutico o con la sempre apprezzata acqua calda, rimane quindi a connotare differenze e possibilità. La conquista, nel bagno entro casa, avrà ben presto, con un successivo traguardo ambito: acqua calda in una comoda vasca, per dimenticare generazioni di immersioni nelle tinozze gelate o frequentazioni plurime. Un oggetto, lo scaldabagno, che fu per molti la precisa forma assunta dalla soglia capace di dividere le (magre) soddisfazioni reddituali dei padri dalla posizione sociale raggiunta dalle famiglie dei figli: un vero e proprio status symbol. Ancora nel secondo dopoguerra lo scaldabagno resta però una fortuna riservata a pochi bresciani. Nel 1951 solamente 8.000 famiglie in tutta la provincia, infatti, possedevano un bagno interno degno di questo nome – ovvero con vasca o doccia fissa – (il 5% del totale), mentre ben 112.000 alloggi erano dotati – viceversa – di sola latrina esterna (il 56%). In città il bagno è assai più diffuso, ancora una volta a marcare le differenze del vivere urbano: ve ne sono tanti quanti in tutta la provincia – oltre 8.400 – che restituiscono un 23% circa di case cittadine con la nuova stanza, pensata quale prolungamento dell’intimità della propria camera. Il censimento di dieci anni dopo, 1961, dà conto del cammino compiuto, che asseconda il crescere dei consumi d’acqua. Nelle 50.500 abitazioni cittadine ora un bagno degno di questo nome é presente nel 55% delle abitazioni ed è già possibile scegliere fra decine di nuovi modelli – così una pubblicità – di “porcellane e maioliche per la comodità del bresciano”.

Questa fotografia e le altre pubblicate su "bresciastorica.it" sono presenti nel libro fotografico "Brescia Antica" edito dalla Fondazione Negri.

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