Feriti alla stazione: Brescia il grande ospedale

La battaglia di Solferino e San Martino, combattuta il 24 giugno 1859, fu una pietra miliare dell’unficazione nazionale, ma fu anche un’ecatombe in cui sia gli austriaci sia l’esercito franco-piemontese ebbero all’incirca 11.000 morti e 45.000 feriti e malati, di cui rispettivamente 3.000 e 14.000 italiani. L’immagine, davvero rara, mostra la stazione di Brescia accogliere

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Il Campo di Marte

Siamo al limite settentrionale della città degli anni Venti del Novecento. L’immagine del fotografo Negri documenta l’avvio dei primi lavori di urbanizzazione, dall’incrocio con l’attuale Via Leonardo Da Vinci, Largo degli autieri e la non ancora tracciata via Vittorio Veneto.

Ancora all’inizio dell’Ottocento qui si tiene il mercato dei bestiami e la Fiera. La spianata per esercitazioni militari venne qui ricavata dal governo austriaco intorno all’anno 1840. Grazie alla vicinanza con le caserme della cavalleria e della fanteria, ospiterà numerose parate ed esercitazioni militari.

Nel 1863 Campo Marte viene allargato notevolmente e nell’agosto del 1864, in occasione dell’inaugurazione del monumento alle X Giornate, verrà aperto alle manifestazioni sportive. In particolare vi si tengono gare ippiche e ciclistiche, e nella grande guerra lo spazio viene adattato pure a aeroporto, inaugurato con uno spericolato atterraggio compiuto da un aereo proveniente da Torino nel settembre dello stesso anno.

Solamente con l’acquisizione da parte della Municipalità l’area verrà quindi via via ridotta e destinata al residenziale.

La cessione dell’estensione da parte dello Stato viene proposta nel 1925. Quello stesso anno, senza perdere tempo, il Comune progetta – così la stampa del tempo – “la costruzione di strade per affacciare il Borgo Trento con la Piazza d’Armi, la sistemazione stradale della stessa Piazza d’Armi, di cui è stata decisa dal governo la cessione la Comune”. 

Dopo poche stagioni, per recuperare volumi da destinare a case popolari nella seconda metà degli anni Venti si procede alla riduzione dei padiglioni militari esistenti in Piazza d’Armi, “sottolineando che la spesa sarà cospicua”. Ancora, alla fine degli anni Venti, si segnala fra le opere compiute dal primo podestà Pietro Calzoni, “la prosecuzione della realizzazione delle case popolari con le grandi costruzioni nella ex Piazza d’armi e nel quartiere Vittorio Veneto”.

Compare nel frattempo il caratteristico portale dalle architetture classiche, con doppio colonnato e la scritta “Virescit Robore Virtus”

Con delibera del 1930, la podestaria delibera alcune variazioni toponomastiche. Le strade del quartiere della vecchia piazza sono intitolate ai luoghi della Grande guerra: da allora  portano i nomi di via Vittorio Veneto, via Monte Grappa, e si ritenne di imporre il nome di via Monte Nero alla parallela nord di via Monte Grappa.

Durante il secondo conflitto mondiale la città vede crescere gli “orti di guerra”, sempre sotto l’egida e l’impulso della podesteria e del dopolavoro: le coltivazioni erano diffuse sui prati del Castello, i giardini di Spalto S. Marco, di piazzale Arnaldo, di via dei Mille e di via Montesuello ed altri lacerti di terreno lasciati incolti, compreso il Campo Marte, per un totale di circa sei ettari coltivabili, dai quali i dopolavoristi speravano in realtà di trarre frutti più copiosi, ma che trasformano Campo marte in poderi di coltivati a grano e ortaggi.

Nel secondo dopoguerra l’urbanizzazione è immediata: dove ora sorge la Scuola di polizia Polgai esisteva un campo di calcio e si ergeva periodicamente il luna park. Nel 2016 il Comune di Brescia ha lanciato l’idea di una rifunzionalizzazione di questi spazi, attraverso il sistema della progettazione partecipata e aperta al quartiere e ai residenti, col nome di “Un cuore per Marte”.

Piccoli bresciani in colonia

Il fotografo Negri è uomo esperto e sa documentare da par suo, anche quando si tratta di una commessa da privati o da enti, le ragioni del proprio scatto. Occorre racchiudere in una sola immagine ampie strutture, rendere leggibili scritte e insegne, tenere immobili scalmanati bambini e compunti adulti, mettere di lato ma ben visibili bandiere o simboli del moderno, come le automobili.

Il risultato è, per esempio, questa bella immagine della colonia permanente “Principe di Piemonte” nelle giornate inaugurali del 1922. Vi è annesso il ‘Pensionato Famigliare Femminile all’Aprica’ della Croce Rossa Italiana, gestita dal Comitato di Brescia, inaugurata il giorno 15 settembre 1922 quale colonia permanente con 63 bambini, sotto la guida del dottor William Zanini; la colonia-collegio sarà poi trasferita a Salò nella Villa Bellini, capace di 100 letti e poi trasformata più recentemente in orfanatrofio.

Vere e proprie iniziali colonie furono le Stazioni alpine, promosse dal 1884 in poi e sorte a Collio, a Bagolino e a Camaldoli di Gussago. Le montagne bresciane ospitano numerose colonie alpine, gestite da aziende, parrocchie o direttamente dal partito fascista e suoi enti collegati. Sono luoghi di ripetute vacanze estive per migliaia di bambini: negli anni Trenta le colonie bresciane sono complessivamente 110.

Ma non sono solamente luoghi di vacanza. In realtà la villeggiatura estiva in salubri località era resa necessaria dalle precarie condizioni di salute dell’infanzia.

Nel campo dell’assistenza ai minori – con l’obiettivo di contrastare l’elevata mortalità infantile grazie a soggiorni nelle colonie – già nel 1872 la Congregazione di carità cittadina istituisce la ‘Pia opera del baliatico’, che eroga sussidi alle madri nutrici e per quelle costrette a ricorrere alle balie o per mandare fuori famiglia e fuori città i figli malati. Dal 1905 opera la Cassa d’assistenza ‘Pro maternitate’ per l’elargizione di aiuti finanziari.

Nel dopoguerra è attiva la ‘Federazione provinciale delle opere infantili antitubercolari’ (1920) e dopo pochi anni sono aperte le colonie elioterapiche in Castello (1922), Mompiano (1925) e quindi di Stocchetta e Urago Mella, così come altre sono gestite lungo il fiume Oglio o nelle campagne della Bassa bresciana o in valle Camonica.

Fra le opere di carattere assistenziale si segnala la realizzazione della ‘Casa della madre e del fanciullo’ dell’Onmi – Opera nazionale maternità infanzia -, fiore all’occhiello degli sforzi del welfare di regime. Essa sorge nei pressi del quartiere Campo Fiera, inaugurata nell’anno 1937 e consiglia l’invio nelle colonie montane, marine o fluviali, di centinaia di gracili ragazzini.

Una colonia permanente per una sessantina di bambine gracili ed intitolata al Principe di Napoli è aperta il 17 gennaio 1938 nell’ex villa Zanardelli di Fasano. Nello stesso anno le colonie erano 110 di cui 84 elioterapiche, 8 fluviali e lacuali, 7 marine, 8 montane, 3 termali.

A mandare in vacanza i bambini bresciani sono soprattutto le colonie marine o montane dei Dopolavoro aziendali delle imprese più importanti, dalla Metallurgica Tempini alla Togni, alle “mitiche” colonie organizzate dalla Om. La Breda sin dagli anni Trenta gestisce per i figli dei propri dipendenti una colonia marina a Celle Ligure.

Nota è pure la Colonia montana ‘Benito Mussolini’ eretta in località Valledrane di Treviso Bresciano recuperando le casematte di servizio al vicino forte militare costruito nel 1912: la colonia offre 130 posti letto ed è aperta ufficialmente da Augusto Turati nel luglio del 1926.

Durante l’ultimo mezzo secolo le colonie hanno continuato a funzionare. Sono le proposte che parrocchie in primis – ma non solo – rivolgono ai più piccoli, per consentire qualche giorno di svago e di aria diversa da quella di città. E sono circa 200 le parrocchie che in questo XXI secolo promuovono soggiorni estivi per i più piccoli, per i tre quarti in montagna e per un quarto al mare.

E sono una cinquantina, sparse un po’ per tutte la provincia, le strutture censite nell’elenco delle case-vacanza pubblicato dal sito degli oratori bresciani.

Tutti al circo

Gran Circo Olimpico in Piazza Vecchia a Brescia: equestre compagnia diretta dal maestro Carlo Ferroni, con l’arabo Mocchammed Ben Cluissin Mustafà ed il primo Grottesco a Cavallo e celebre danzatore sulla corda tesa”.

Così un volantino dei primi anni dell’Ottocento annunciava uno dei tanti spettacoli che circensi, teatranti, burattinai e saltimbanchi tenevano nelle strade e nelle piazze della città.

Solleticando la memoria storica, si ritrovano immutate nel circo e nelle fiere le atmosfere del teatro di strada, delle lanterne magiche sparse qua e là nei Luna-park e dei palcoscenici ambulanti che animavano i vicoli di un tempo dove bastava davvero poco per sognare ad occhi aperti.

Mestieri che non si inventavano, ma si tramandavano e si tramandano ancora oggi di generazione in generazione nelle famiglie il cui nome è segnale di garanzia – da Barnum a Togni -, con immensi sacrifici e con straordinaria passione, in un continuo vagabondare in luoghi diversi: ad ammirarli stuoli di bambini e giovani, che sotto quei tendoni incantati restavamo travolti dallo stupore: la smorfia di un clown, la scioltezza di un giocoliere o l’audacia di un trapezista bastavano a far respirare l’aria di un altro mondo, alternativo e caleidoscopico.

L’immagine dello studio Negri propone allo stupore di uno sciame di ragazzi incuriositi il passaggio per le vie del centro di Brescia di un possente elefante guidato da un serissimo domatore, agli inizi del Novecento. Un vero e proprio pachiderma che l’obiettivo del fotografo, nonostante l’immaginabile lentezza del passo, coglie nella sua dinamicità.

Spettacoli forse oggi non più immaginabili, come quella “Esposizione galleria zoologica con grande famiglia di coccodrilli vivi” tenutasi “sulla Piazza del Broletto di Brescia” nel 1862, con l’intervento del celebre domatore bresciano Benedetto Advinent a mostrare agli increduli cittadini – così la pubblicità del tempo – “quelli esemplari di cui tutti i giornali di Francia hanno parlato”.

Gli spettatori non mancavano mai e la fotografia testimonia di una curiosità mai venuta meno: circhi e spettacoli si alternavano ala tradizionale fiera, che gli Statuti della città del 1252 già ricordano nelle edizioni della Fiera del Brolo e del Castello, oltre a quella che si teneva a Ponte Mella, fra il 25 luglio ed il 15 agosto.

Quest’ultima si trasferirà in Campo Fiera, con un decreto della Serenissima Repubblica Veneta che ne fissava la data di svolgimento fra il 6 ed il 18 agosto di ogni anno. I mercanti dovevano affittare gli appositi “casotti” e parteciparvi con le loro “botteghe ben fornite”: già nel 1612 il luogo veniva adornato da “due copiosissime fontane e due porte di sasso piramidale”.

Nell’Ottocento si ricordano il circo con la “donna pantera e quella colosso”, “i cavalli fenomeni”, con la città a spostare in quelle settimane il proprio baricentro ludico fuori le vecchie mura. E nei primi anni del Novecento i giornali parlano di tram presi d’assalto dalla folla, pronta a gustarsi “il grande cinematografo all’aperto Kullman, il serraglio delle bestie di Nouma Hawa ed una bellissima giostra di automobili”.

Nel 1906 – già lo abbiamo incontrato in questo blog – è la volta dell’apparato scenico del circo di Buffalo Bill: 500 persone, 800 cavalli e bufali, tende e pellirossa a far da contorno per uno spettacolo che resta a lungo nella memoria dei bresciani che in 12.000 accorrono festanti.

Spazi e vie trasformate in paese dei balocchi, fra sogni ad occhi aperti e colorati tendoni, “la cui disposizione, la sera, piace assai”. Vi compare pure un primo Luna Park, con quelle montagne russe che, nel 1908, vengono descritte “lunghe 150 metri con ondulazioni più o meno alte, percorse da un carosello andata e ritorno, lasciando un po’ di brivido”.

Il circo mantiene ancora oggi inalterato un ulteriore charme: quello dell’affascinante, duro mistero dei loro lavoranti.

Beni di lusso per i cittadini

Nella studiata immagine del fotografo Negri l’elegantissima e moderna sala d’attesa per i clienti del negozio di “Articoli per sports e calzature Pivetti”, gestito da Riccardo Pivetti in via XI Febbraio n. 4 (in precedenza alle demolizioni di piazza Vittoria proseguimento di via Dante, oggi via card. Giulio Bevilacqua).

Gusto e raffinatezza non mancano per questo negozio fondato nel 1860 e che negli anni Trenta del Novecento si pubblicizza come «la più antica e rinomata ditta specializzata in tutte le forniture alpinistiche, fornitore del Cai», inseguendo così anche la moda delle gite in montagna organizzate da varie associazioni. Un luogo che costituisce l’emblema del gusto in evoluzione dei bresciani, fra tradizione e modernità.

Il commercio cittadino in realtà da lungo tempo ha modellato il proprio sviluppo anche sui beni di lusso. Basti pensare ad un comparto sempre in ascesa: l’oro ed il suo commercio. Nel corso dell’Ottocento nella sola Brescia risultano attive circa 120 botteghe di gioiellieri o venditori di oro, un numero enorme per una città di poco superiore ai 30.000 abitanti, numero che cala gradatamente nel corso del tempo.

I censimenti industriali del secondo dopoguerra segnalano nel territorio bresciano 58 imprese (con 175 addetti) nell’anno 1951, aziende che si dedicano alla lavorazione o commercializzazione anche dell’oro che divengono 91 nell’anno 1961 (con 629 addetti), sino ad esplodere letteralmente nel tenere testa al boom economico, che rende disponibili surplus da investire nel prezioso metallo.

La rete commerciale non segue, però, adeguati itinerari di modernizzazione, mostrando i segni di una stagnazione anche di stampo merceologico: negli anni Trenta, sono ancora aperti, per esempio, 5 negozi per canestri di vimini, 11 di sellai e 15 esercizi per la vendita sfusa di lisciva, 56 latterie, solo 4 negozi di «articoli in gomma», ma 7 di «sacchi usati», quasi 250 fra caffè, bar e bottiglierie, 235 trattorie e più di 200 osterie. Nella realtà tipicamente urbana il lusso mantiene però ha la sua parte: vi sono ben 12 negozi per la vendita di arredi sacri e altrettanti di pianoforti, 22 negozi di cappelli, mentre fioriscono i laboratori che utilizzano oro: sono 38 in città, 6 a Chiari, 4 a Palazzolo ed uno per i centri maggiori.

Non mancano altri negozi particolari. Franco Guidetti in corso Palestro è l’unico in città che per decenni vende casseforti, due sono le manicure aperte presso l’Albergo Diurno e tre quanti fanno pedicure; ben 33 gli orefici e gioiellieri e 7 gli antiquari e venditori di “oggetti d’arte”; 25 le profumerie e 7 i restauratori, che disegnano comunque una città viva e per certi versi non povera.

Nel secondo dopoguerra è l’elettrodomestico ad assumere molteplici significati – dalla liberazione dalla fatica a strumento di emancipazione femminile, da status symbol familiare a emblema di un lusso che vuol dire svolta generazionale. Ad iniziare dalla lavatrice, che trova nella «miniaturizzazione» la possibilità della sua adozione nelle case private.

Prende piede quella che inizialmente la lingua italiana chiama «liscivatrice automatica», che consente un’operazione di lavaggio meccanizzata. In città si diffondono inizialmente i modelli Fiat e Candy , con un costo base di 210.000 lire, pari a circa sei/sette mensilità operaie. Nel 1958 compare la prima lavatrice completamente automatica. È l’inizio di uno straordinario successo, se nel periodo compreso fra il 1959 ed il 1963 le vendite del nuovo elettrodomestico conoscono un aumento pari al 350%.

Il modello di vita americano prende piede con rapidità: nel negozio «Vita» di via Palestro, per esempio, si propongono i frigoriferi – sotto lo slogan «Per una vita più comoda» – i modelli Sigma «originali germanici di Mannheim della Brown Boveri» – costo 99.000 lire – e i modelli Du Pont, costruiti con «lamiera elettrozincata» e montati nelle nuove cucine razionali, dette «americane». Anche presso la concessionaria Fiat «Bertolotti», accanto ai modelli delle automobili torinesi compaiono in vendita robusti frigoriferi, mentre presso il noto negozio «Vigasio» nel 1960 si pubblicizzano i «frigoriferi svizzeri per la famiglia»: costo 38.000 lire, ratealizzabili a 4.000 lire mensili; lo stesso commerciante nel 1961 è in grado di garantire il ritiro della vetusta ghiacciaia – «[la] pago lire 25.000» – in cambio dell’acquisto di un frigorifero.